Il paziente al letto 5 è magro, sfoggia un paio di baffi d’altri tempi e, nonostante la maschera della ventilazione, non smette un attimo di parlare. Preoccupata dalla sua saturazione mi avvicino per ottimizzare i parametri e convincerlo a fare dei respiri profondi anziché continuare a bofonchiare in modo incomprensibile.
“In quanto tempo muoio se mi togliete la maschera?”
“Perché vuole togliere la maschera?”
“Perché non voglio vivere così”
“Ma ha dolore? Le manca il fiato?”
“No, è solo che non voglio vivere così”
“Ha paura che rimarrà attaccato al ventilatore? Guardi che la polmonite nella maggior parte dei casi guarisce, piano piano la ventilazione la togliamo, mettiamo l’ossigeno e poi si spera neanche più quello”.
“Ma no, è perché sono vecchio, nessuno mi vuole, le cose hanno iniziato ad andare male tutte insieme, non è l’intervento e neanche la polmonite, io volevo andarmene già prima, però non lo posso fare da solo, aiutatemi”.
Possiamo dire tutto ciò che vogliamo sul diritto all’autodeterminazione, ma quando una volontà di desistenza viene espressa in modo così netto e lucido non so mai cosa rispondere. Le rassicurazioni generiche non bastano, ma non posso nemmeno costringerlo a una terapia che non vuole. E pensare che stavo per proporgli una toracentesi per aiutarlo a respirare meglio.
“Mi hanno operato d’urgenza, sa?” Un brutto aneurisma dell’aorta addominale, un intervento complicato che ha richiesto anche un passaggio in rianimazione. “Il chirurgo che mi ha operato non l’ho mai visto, ogni giorno vedevo un assistente diverso, ma se mi hanno dedicato 3 minuti in due giorni è tanto. Allora una sera ho chiamato il chirurgo al telefono, gli ho detto che volevo parlargli, ma mi ha trattato male. Ha detto che era mezzanotte. È mezzanotte anche per me, gli ho risposto. Ma niente. Qui nessuno mi ascolta mai, invece è importante parlare anche con il paziente”.
Ha ragione. Per puro caso il libro che sto leggendo, una raccolta di scritti di George Orwell, racconta una scena simile.
“Non ero mai stato nel reparto pubblico di un ospedale, prima di allora, ed era la prima volta che avevo a che fare con medici che si occupavano di me senza parlare e senza dimostrare un po’ di attenzione a livello umano.
[…] il medico alto e solenne dalla barba nera faceva il giro di visita con un interne e una truppa di studenti alle calcagna, ma nel mio reparto eravamo una sessantina ed era evidente che doveva occuparsi anche di altri. Erano molti i letti a cui giorno dopo giorno passava accanto senza fermarsi […] se invece avevi una malattia con cui gli studenti dovevano familiarizzare, ricevevi tutta l’attenzione che volevi […]. Era una sensazione strana – strana, intendo, perché il loro grande desiderio di imparare il mestiere si accompagnava a un’apparente incapacità di comprendere che i pazienti erano esseri umani. […] Un orecchio dopo l’altro […] ti premeva sulla schiena, una sequela di dita tamburellava solenne ma goffa su di te e da nessuno degli studenti spremevi una parola o uno sguardo diretto. […]
George Orwell, Autobiografia per sommi capi, Mattioli 1885, 2021
È un dato di fatto che in un qualunque ospedale inglese non si vedrebbe mai ciò che ho trovato all’Hopital X.
[…]Era infatti un ospedale in cui erano sopravvissuti, non tanto i metodi, quanto un non so che dell’atmosfera ottocentesca, e in questo stava il suo particolare interesse.
Negli ultimi cinquant’anni circa il rapporto tra medico e paziente è molto cambiato.
Scusa George, forse sei stato troppo ottimista. Per fortuna nel nostro reparto abbiamo dei bravi infermieri, dai quali interamente la qualità dell’assistenza. Marika chiacchiera con Bruno (così si chiama il letto 5), gli fa raccontare di sé, gli promette di tagliargli la barba l’indomani. Bruno continua a dire che non vuole più vivere, rifiuta il riposizionamento dell’accesso venoso, ma alla fine si addormenta.
È mattino, Bruno suona, Marika si avvicina.
“Allora, quand’è che mi togliete la maschera?”
“Quando avrà parlato con sua moglie e deciso davvero cosa fare”
“Certo che lei saprebbe vendere il ghiaccio agli eschimesi”