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25 dicembre 2021.
La popolazione del Pronto soccorso covid si divide in due categorie: un certo numero di vaccinati con mal di gola, naso che cola, dolori muscolari che viene a farsi il tampone perché “non si sa mai” e lo scopre inaspettatamente positivo e un certo numero di non vaccinati con la tosse, la febbre e la mancanza di fiato che ha palesemente scritto covid in fronte.
Benvenuta Omicron.

La signora S., 50 anni, in attesa della terza dose, mi chiede cosa fare con i parenti che ha visto al cenone ieri sera: «Avevo pure fatto un tampone il 23 per vederli tranquilla ed era negativo! E poi ho solo il mal di gola, è possibile che sia covid? Non è il caso che mi facciate un molecolare che magari è un falso positivo?». Vorrei lasciarle questa illusione, ma è la quinta in poche ore con gli stessi sintomi e il tampone positivo. Quanto meno sta bene, alla cena erano tutti vaccinati e i suoi genitori avevano già fatto la terza dose. Non posso però fare a meno di pensare che il sistema di sorveglianza (mai efficace) salterà in queste vacanze. Solo con quelli che ho diagnosticato stamattina e i loro contatti stretti ci sono un centinaio di persone in isolamento a Torino, che dovrebbero tutte fare un tampone entro l’Epifania, con i medici di base in vacanza, le farmacie prese d’assedio da chi ha prenotato i tamponi per vedere in sicurezza i parenti e dai non vaccinati che necessitano del green pass.

K., 40 anni, non vaccinata, sa già di avere il covid, il che mi porta a chiedermi cosa la spinga in Pronto soccorso la mattina di Natale. «Mi sento molto stanca». I parametri sono normali, l’ecografia pure, d’altra parte la spossatezza da covid è cosa nota, dopo 15 giorni dovrebbe saperlo anche lei. «Perché non si è vaccinata?», chiede l’infermiere a fianco a me (io da tempo ho imparato che è meglio non chiedere per preservare la salute del mio fegato). «Sono contraria e in ogni caso tornassi indietro non mi vaccinerei e non mi vaccinerò». Ecco, in questi momenti penso che questi soggetti, già che costano ai contribuenti due viaggi in ambulanza e lo stipendio mio e degli altri dipendenti il giorno di Natale, dovrebbero quanto meno perdere il diritto al mugugno. Come nei contratti di marineria genovese del ‘300: ti pago di più ma stai zitto e non ti lamenti. Non ti vaccini, ti ammali, costi il triplo al sistema sanitario, almeno non ti lagni dei pochi sintomi che hai la fortuna di avere.

Chi mugugna tantissimo, ma a buon diritto, è R. Nella barella a fianco. Lui ha 70 anni, è vaccinato, ma ha una malattia ematologica che gli sopprime il sistema immunitario e ha scoperto oggi di avere la polmonite da covid. Non sembra grave, ma contando la necessità di ossigeno e i fattori di rischio dobbiamo ricoverarlo. Il suo cruccio è la moglie con il tumore dei polmoni, che ha paura di aver contagiato e che per ora è a casa in isolamento. «Non capisco, ho fatto tre dosi di vaccino, sono uscito di casa solo per portare mia moglie a fare la chemio, cos’altro potevo fare?».

20 gennaio 2022.
In Pronto covid le barelle dei positivi sono ammucchiate una sull’altra, non c’è letteralmente spazio per passare a visitarli, bisogna aprirsi un varco come in quegli schedari montati sui binari, dove si può accedere a uno scaffale per volta. I posti letto per i ricoveri saltano fuori con il contagocce e per ogni ricoverato c’è qualcun altro da tenere, da una settimana abbiamo 15 pazienti in una stanza pensata per accoglierne 4, con le prolunghe dell’ossigeno spinte al massimo e le bombole da riempire più volte al giorno. D’altro canto i posti letto covid regionali sono stati dimezzati, ed è impensabile invertire il Pronto soccorso pulito con quello sporco perché gli accessi al Pronto pulito sono tanti quanti quelli del Pronto covid. Non avremmo dove mettere i malati, non abbiamo più reparti da sacrificare, abbiamo già compresso tutte le chirurgie in un unico piano, decentralizzando le urgenze meno complesse. Se la coperta era corta l’inverno scorso, quest’anno è proprio finita, come finita è la pazienza degli operatori. I chirurghi non ne possono più di fare un lavoro che non è il loro, gli infermieri sono esausti di inzuppare a ogni turno la divisa dentro a una tuta di plastica, tutti sono stufi di veder morire la gente. Poco cambia se è l’ennesima polmonite da covid o se è il tumore del polmone che a causa di un ritardo nella lista operatoria si è disseminato e non ha più possibilità di guarire, il fatto è che la campagna vaccinale ha ridotto i ricoveri tra i vaccinati, ma non ha fermato il virus e gli ospedali restano pieni.

C., 83 anni, Alzheimer, non vaccinata, ha la febbre da 8 giorni, ma la stavano curando con degli antibiotici pensando fosse un’infezione delle vie urinarie. Questa sera sembrava più soporosa del solito e la figlia ha chiamato l’ambulanza. Saturazione d’ossigeno infima, ecografia polmonare orribile: ha una polmonite da covid da manuale. Mi preparo a una telefonata uguale ad altre mille fatte in questi due anni: «Sua mamma ha una polmonite molto grave, non risponde all’ossigeno, non ha indicazioni alla terapia intensiva perché è troppo debilitata, la tratteremo ma ci sono poche speranze». La risposta a sua volta non mi giunge nuova: «Ma quindi non la vedrò più?». Qui, nel corso di questi due anni, le risposte, sulla base di un astruso algoritmo composto da numero di contagi, leggi, editti della direzione, grado di affollamento, sono state nell’ordine «No», «Forse», «Sì (se ha il green pass)», «Per questa volta facciamo un’eccezione», «Assolutamente no». Oggi è il caso dell’ultima… tralasciando che la mamma ha il covid e che fargliela vedere implicherebbe guidarla nella vestizione, tralasciando l’assoluto divieto all’ingresso dei parenti formulato dalla direzione dell’ospedale, posso mai far entrare un parente in questo inferno di barelle ammucchiate? «Beh, allora le chiedo se può andare all’orecchio di mia mamma e dirle che la saluta sua figlia R., so che sembra che non capisca, ma a me risponde, è importante».


Intanto al centro vaccinale si cerca di erodere una minima quota di non vaccinati, una prima dose alla volta. C’è chi è sfuggito alle maglie per qualche scaricabarile medico-legale, magari perché ha avuto un effetto collaterale da un farmaco e il medico vaccinatore non se la sentiva di vaccinarlo senza il parere dell’allergologo, il quale rimandava la palla al reumatologo che la rispediva al vaccinatore in un loop che si può interrompere solo trovando qualcuno disposto una buona volta ad assumersi un rischio infimo a fronte di un beneficio nettamente superiore (vista la contagiosità di Omicron). C’è chi si è convinto, ma mica tanto, e si fa venire una crisi di panico lamentando dolori ovunque prima ancora dell’iniezione. C’è chi, ancora in piedi e con la giacca addosso, chiede: «Che vaccino mi fate?» Come se fossimo in una profumeria. Ho così scoperto il razzismo contro Moderna, che ha sostituito AstraZeneca nell’olimpo dei vaccini sgraditi e l’entusiasmo per Novavax, l’unico ancora non disponibile (sarà lo stesso meccanismo che guida il desiderio dell’introvabile playstation 5?). A fine giornata la pila delle prime e seconde dosi somministrate è neanche un quinto di quella delle terze, l’impressione che ne traggo è che abbiamo raggiunto il massimo livello di vaccinati in un paese democratico con il nostro livello di disinformazione. Nessun obbligo vaccinale può convincere gente che, ricoverata in terapia subintensiva con la polmonite da covid, rifiuta le terapie perché si cura solo con l’aloe o ritiene di aver fatto bene a non vaccinarsi: «Perché tanto io me lo sono preso da un vaccinato» (il quale però evidentemente è a casa propria col raffreddore).

Ma se i tracciamenti hanno fallito, come è inevitabile con un virus dall’altissima contagiosità e dal brevissimo tempo di raddoppio, la campagna vaccinale si avvicina all’asintoto orizzontale, come se ne esce? Sono settimane che mi pongo questa domanda senza risposta. L’unica speranza ragionevole sarebbe che tutti i non immunizzati si ammalassero e guarissero, auspicabilmente; a quel punto potremmo passare a gestire il covid – se non varierà ulteriormente – come gestivamo l’influenza, ossia con campagne vaccinali poco partecipate, ignorando i contagi intraospedalieri e accettando un minimo numero di ricoveri e decessi annui per malattia grave. Due anni di pandemia hanno poi aumentato notevolmente la consapevolezza della popolazione nei confronti delle malattie infettive: chi mai nel 2019 si preoccupava di non vedere qualcuno o non andare a lavorare perché aveva la febbre? E chi mai avrebbe pensato di farsi un tampone diagnostico in casa per un raffreddore? Ora invece è buona abitudine, anche tra vaccinati, evitare di frequentarsi o lavorare da casa al minimo sintomo, premurarsi di effettuare un tampone prima di cenare al ristorante o di affrontare un viaggio. Tutto ciò è senza dubbio positivo, ma non basta e richiede un ripensamento della sanità, degli ospedali, di risorse e spazi al momento assenti, nonché una gestione che, in futuro, non sconti i medesimi ritardi: il tracciamento è partito tardi, quando le mutazioni del virus l’hanno reso difficilissimo, ed è tuttora gestito in modo farraginoso; i percorsi covid sono stati improvvisati a ogni singola ondata, come se si trattasse di un’eterna imprevedibile emergenza, anziché di un’endemia ad andamento stagionale.

Se è ora di pensare a una convivenza di medio-lungo termine con questo virus, è alle strategie potenzialmente applicabili a future pandemie e alla prevenzione delle malattie infettive in generale che si deve, in tutta la loro serietà, in questo momento guardare.

Post originariamente pubblicato su Volere la luna

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