La prima lezione di Anatomia iniziò con la proiezione di diapositive.
No, non power point… Il nostro professore era all’antica (e noi saremmo stati i suoi ultimi allievi) quindi niente pc, niente videoproiettore, tutto ciò che avevamo a disposizione era un vecchio proiettore di diapositive come quelli per le foto di famiglia e una lavagna luminosa.
Le nostre lezioni si sono svolte tutte così, col il prof. che pasticciava dal vivo con il pennarello indelebile lucidi di disegni anatomici in bianco e nero.
La prima diapositiva proiettata alla prima lezione fu l’uomo Vitruviano. Un po’ scontato, forse, ma con un suo significato e mi piace pensare che sia anche per questo che come prima immagine della mia tesi di laurea, sei anni più tardi, abbia scelto un disegno anatomico di Leonardo.
La seconda diapositiva era invece incomprensibile: qualcosa di colorato, una foto, un dettaglio, nessuno capiva cosa fosse. Il prof. ci lasciò lì a interrogarci per un po’, poi girò sulla terza diapositiva: la foto di un camion di cui la prima era in realtà un dettaglio tra la fiancata e il passaruota.
Il messaggio recondito ci risultò chiaro a breve: l’anatomia è l’arte di interpretare immagini oscure che illustratori dell’Ottocento e fotocopiatori moderni rendono ancora più ostiche.
Ma il ricordo migliore che ho del corso di anatomia e che racchiude tutta la tenerezza del primo anno di università non risale alla prima lezione ma, credo, alla seconda o alla terza. Si parlava di colonna vertebrale e per rendere più interattiva la spiegazione il professore aveva portato una vertebra di giraffa, sgraffignata da lui medesimo durante un viaggio in Africa. Era il primo “oggetto didattico” su cui potevamo mettere le mani e stava lentamente passando tra i banchi. Ebbene non dimenticherò mai la faccia di una ragazza della seconda fila, costretta a prendere l’oggetto per il cordino al quale era appeso e trasferirlo al vicino: braccio teso come se dovesse proteggersi da un’infezione mortale, sguardo di disgusto come mai ne ho visti e tutto per un misero osso perfettamente ripulito (e neanche umano).
Io all’epoca non ero a questi livelli, ma nemmeno tanto distante. Pensavo che avrei fatto psichiatria e che la prima volta in sala operatoria sarei svenuta perché due anni prima, quando mi avevano costretto a guardare una puntata di ER avevo passato due ore a contorcermi sul divano dal ribrezzo.
Vi lascio immaginare le espressioni di parenti e amici quando ho annunciato che mi sarei iscritta al test di Medicina. Vi lascio immaginare le espressioni di parenti e amici quando ora racconto di gente che arriva al pronto soccorso con un dito mozzato in un fazzoletto.
Il passaggio sembra folle ai limiti dell’impossibile, ma in realtà è piuttosto breve. Si consuma quasi tutto alla prima esercitazione di anatomia. La raccomandazione del professore, in quel lontano pomeriggio di Aprile del primo anno, suonò così: “Mi raccomando ragazzi, i reperti che vi troverete a maneggiare sono di persone che hanno donato il proprio corpo alla scienza, non dimenticate mai che sono state persone vere, quindi, per favore, cercate di evitare di tirare un osso in testa al vicino”.
Nulla ci suonò assurdo come questo monito nel momento in cui fu pronunciato.
Eravamo timidi, nei nostri camici indossati per la prima volta, atterriti all’idea che avremmo dovuto per forza toccare delle ossa umane.
Per la prima mezz’ora credo di aver letto negli occhi della maggior parte dei miei compagni il più profondo disgusto, poi solo più perplessità mano a mano che i più audaci iniziavano a manipolare i preparati. Per la fine del pomeriggio la domanda più comune era: “Mi presti una tibia del tuo tavolo che sto ricostruendo la bandiera dei pirati?”