Fare un lavoro come il nostro, che ha uno dei suoi cardini nella relazione verbale e necessita per essere svolto dell’interazione efficace con moltissime persone, in un’altra lingua è di per sè un’impresa. Non importa quanto quella lingua tu l’abbia studiata, quanto tu sia intuitivo, quanto dall’altro lato ci sia altrettanta ignoranza di lessico e grammatica, hai la costante sensazione che se solo avessi più padronanza linguistica lavoreresti molto meglio.
Eppure qui (e per qui intendo un sobborgo di Londra, città di 8,5 milioni di abitanti di cui meno del 45% britannici) capirsi è più l’eccezione che la regola.
Più di metà dei lavoratori dell’ospedale è originaria di altre parti del globo, ma non c’è correlazione tra competenze linguistiche e origine geografica. Ci sono immigrati di terza generazione nati qui che parlano un inglese pessimo e altri che nemmeno hanno la cittadinanza che parlano così bene da non avere quasi accento.
I pazienti a loro volta possono essere perfette ladies scozzesi come turchi arrivati da pochi giorni o italiani che vivono qui da decenni e ancora non parlano inglese in modo accettabile. Nessuno di loro pare scomporsi all’idea che il loro medico/ infermiere/ assistente/ portantino possa parlare inglese peggio di loro.
Il problema è così frequente che le cartelle cliniche non solo riportano l’etnia in prima pagina insieme ai dati anagrafici, ma, dal momento che i due parametri hanno ben poche possibilità di essere correlati, hanno un campo apposito per elencare eventuali “problemi di comunicazione”. Purtroppo per me in questo campo non si può scrivere “il paziente parla inglese, ma ha solo 4 denti e la specializzanda italiana non capisce cosa dice”.
Succede però spesso che la comunicazione in inglese sia del tutto impossibile e l’unica possibilità sia cercare un operatore che parli italiano/ spagnolo/ polacco/ russo/ arabo/ hindi/ urdu/ mandarino e la cosa sorprendente è che questi sono tutti esempi reali e in ciascuno di questi casi in turno c’era almeno un lavoratore parlante la lingua desiderata.
Il vantaggio di tutto ciò è che nessuno correla le tue competenze lavorative alla tua conoscenza linguistica. Lo svantaggio, per chi come me è appena arrivato, è che nessuno ti considera “il povero straniero che va aiutato perché non capisce e non riesce a parlare”. E’ talmente normale che tu abbia un accento e faccia mille errori nel parlare anche se vivi qui da decenni che a nessuno viene in mente che tu lo faccia perché sei appena arrivato e a tutti gli effetti non stai capendo niente.
Ci tengo a dire, prima di rendermi pubblicamente ridicola coi paragrafi successivi, che il mio lessico inglese è piuttosto buono. Riesco a leggere qualsiasi cosa senza fare ricorso al dizionario, per dire. Ma la comunicazione orale è differente e implica delle abilità che troppo spesso diamo per scontate. Ad esempio ciò di cui la lingua straniera ti priva è il multitasking, che sembra inutile finché non lo perdi.
Vuol dire che all’inizio non riesci a sentire e scrivere contemporaneamente senza perdere metà delle parole che vengono dette. Non solo sei lento e devi pensare a come si scrivono le parole, ma se intraprendi questo sforzo titanico mentre un altro sta parlando (il che è definito prendere appunti e nel mio mestiere capita di frequente) ti trovi a metà della frase che non sai più come andare avanti perché non riesci a prestare attenzione ai due compiti.
Vuole anche dire che se mentre stai leggendo o scrivendo qualcuno ti chiama, non lo distingui dal rumore di sottofondo e sembri sempre un po’ sordo o un po’ tanto scemo.
A me ci è voluto un mese per riuscire a portare a termine alcuni compiti banali quali
– seguire le consegne (in inglese) e pensare contemporaneamente ad altro (in italiano)
– seguire una conversazione mentre gli allarmi suonano, i trapani trapanano, i carrelli passano e la gente urla
– partecipare ad una conversazione senza farmi distrarre dagli altri discorsi in atto nelle vicinanze
Mentre dopo un mese non riuscivo assolutamente a:
– capire la gente che parla con la bocca piena
– capire i bisbigli
– seguire due conversazioni in contemporanea
– capire il gracchiare dei cercapersone
Ora al secondo mese riesco addirittura a:
– girarmi quando mi chiamano anche da 30 metri di distanza e anche se sto parlando con qualcuno
– essere distratta dalla gente che chiacchiera attorno a me mentre sto cercando di fare qualcosa (prima era tutto un mormorio indistinto e indecodificabile)
– chiacchierare con qualcuno e percepire sprazzi di altre conversazioni intorno
– capire da che reparto chiamano il crash code con quel maledetto cercapersone che parla
Purtroppo ancora non riesco a capire cosa si dice la gente nei locali rumorosi, o meglio, ci riesco solo guardando il labiale e ciò mi costringe a dei movimenti saccadici fulminei che manco alla finale dei mondiali di ping-pong. Senza contare che se per caso si portano una mano o un bicchiere davanti alla bocca perdo interi stralci di conversazione e va a finire come l’ultima volta che siamo andati al pub coi colleghi che il discorso è magicamente transitato da “quali sono i migliori non-teaching hospital di Londra” a “una volta quando ero in Australia è arrivato in pronto un tizio a cui uno squalo aveva staccato un braccio”. Salvo che non sono sicura che abbiano detto veramente questo, anche se il fatto che abbiano parlato per la mezz’ora successiva di gabbie da sub e sporgere arti dalle sbarre mi fa supporre che abbia capito giusto, per quanto improbabile possa sembrare.
In compenso, ora che più o meno capisco quello che accade attorno a me, imparo un sacco di cose utilissime sugli inglesi e sull’inglese.
1) I termini latini sono fatti per le lingue latine, se la tua lingua prevede di mangiarsi tutte le vocali è un casino. Per questo motivo gli anglofoni non sono in grado di distinguere Hypo da Hyper perchè entrambi sono pronunciati più o meno Aip(*) dove (*) è una vocale inintellegibile simile a una e chiusa e la r non si sente. Così tutte le volte che qualcuno (e intendo qualcuno che parla inglese vero, non uno dei mille stranieri con accenti strani) dice che il paziente è hyponatraemic qualcun altro gli chiede, per sicurezza, “hypoooo?” ottenendone in cambio un “Yes, Hypooooonatraemic”. Ogni. Singola. Volta.
2) 1235 si può leggere in vari modi: uno-due-tre-cinque, dodici-trentacinque, tredici centinaia, ma proprio mai milletrecentoventicinque. Se dici a qualcuno che ti sei laureato nel duemiladodici o che il paziente tale ha milleduecento di troponina ti chiedono sempre di ripetere. Per mimetizzarsi almeno un po’ sarebbe duopo chiamare 2012 venti-dodici e 1200 dodici cento.
3) E’ vero che alla domanda “how do you feel?” rispondono sempre “good” a meno che siano in punto di morte e in tal caso si lanciano in un “not too bad”. In effetti ho sentito rispondere più di una volta “not to bad” a gente che non aveva fiato per respirare.
4) Se sono di madrelingua inglese usano moltissime perifrasi. Ad esempio ho sentito una graziosa vecchina rivolgersi a noi in questo modo: “I’m very sorry to bother you and steal your precious time, but I’m very concerned about something. This morning I had two wrist bands and they took one off, so I am very worried about where could the first one possibly have gone”.
Persino le minacce sono britanniche, ad esempio un paziente di 70 anni, confuso, ha apostrofato la guardia così (e qui le guardie sono dei neri di due metri col fisico dei buttafuori delle discoteche e il giubbotto antiproiettile, non come da noi che si fanno rubare la pistola dal primo folle che passa)
paziente: “Please, Sir, let me go”
guardia: “You can’t move”
paziente: “I am going anyway”
guardia “You can’t move”
paziente: “Sir, I’ll bet you regret it”
Senza contare siparietti di una britannicità unica che hanno sempre al centro il thè.
assistente: “Do you want a cup of tea dear?” (qui si chiamano tutti dear, tranne gli afrocaraibici che per qualche ragione chiamano tutti love)
paziente: “Yes I’d love to”
assistente: “Any sugar?”
paziente: “No I’m sweet enought, or that’s what I like to say anyway.”
Più in generale questa esperienza mi sta facendo riflettere su quanto debba essere inquietante parlare una lingua diffusa e storpiata al punto che è difficile imbattersi in qualcuno che la parli veramente bene. Si tratta di un prezzo che si paga al colonialismo e che noi italiani tutto sommato ignoriamo. L’italiano lo sai perchè sei italiano, o perchè vivi in Italia o perchè sei un melomane e hai deciso di impararlo, ma in tal caso desti più tenerezza e ammirazione che fastidio. L’inglese lo sanno male tutti e bene in pochissimi, e di questi un numero ancora minore lo sa scrivere. Penso che l’unica situazione storicamente paragonabile sial’impero romano. Chissà com’era il latino parlato da un bretone o da un gallo, da un bizantino o da un trace? Chissà se si capivano davvero parlando questa specie di lingua franca? A giudicare dal fatto che dopo duemila anni un italiano e un tedesco non riescono ancora a mettersi d’accordo sulla pronuncia di Caesar mi viene da avanzare qualche dubbio.