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E adesso?
Adesso che l’ultimo post ha totalizzato quarantamila visite raddoppiando da solo quelle degli ultimi sette anni?
Cosa scrivo?
Dovrei forse commentare, giustificare, spiegare, andarmi a infilare nel ginepraio della medicina difensiva per giustificare, sostenere, dibattere?
Ho ricevuto i commenti più svariati (e vi ringrazio per tutti).
Brava, ci voleva qualcuno che facesse capire che i medici sono uomini e che ci vuole umanità nella medicina.
Brava, io apprezzo sempre il cinismo.
Molto meglio di Gramellini.
Ecco perché non mi piaceva Gramellini.
Sembra scritto da Gramellini.
Ha ragione Gramellini.
Dovresti farlo leggere a Gramellini.
E invece sapete che c’è? C’è che non ho voglia di rispondere, di spiegare, di argomentare.
Le parole stanno lì, nella loro evidente ambiguità di interpretazione. Fatene cosa volete.
Oggi ricomincio da capo, con un fatto brevissimo, che da tempo volevo condividere.

Il collega che smonta dal turno di notte ci si avvicina con la faccia stanca e una storia da raccontare. “Non l’avete ancora saputo?” si stupisce, il fatto è successo da poche ore, ma in ospedale il tempo non segue le leggi del mondo di fuori.
Inizia a raccontare come chi si toglie un peso dal cuore.
Questa mattina, saranno state le sei – comincia – è arrivato un ragazzo sui trent’anni. Ieri sera era a casa con suo figlio, di circa due anni, e il figlio, coetaneo, di una coppia di amici.
Stava giocando con i bambini a lanciarli in aria e riprenderli al volo.
Lancia uno, lancia l’altro – Il nostro narratore accompagna con partecipazione le parole con gesti eloquenti al punto che vediamo nitidamente l’eccitazione di un bambino immaginario tra le sue braccia.
Lancia uno, lancia l’altro, in un turbine di piccole grida gioiose, finché uno, il figlio degli amici, gli sfugge di mano.
I cento e passa chilometri che li separano dall’ospedale pediatrico sono percorsi invano.
Rimaniamo tutti senza parole per un momento.
L’uomo funziona così, a confronti, quei maledetti neuroni a specchio non fanno altro che ricordarti tutti i giorni che chi ti trovi davanti potresti essere tu.
Brivido collettivo al solo pensiero: la telefonata all’amico, i pianti, il rimorso. Tra dieci anni, tra venti, il figlio che cresce e ti ricorda di un altro che non crescerà. Immagini che ti passano davanti agli occhi in un nanosecondo.
Poi ti rendi conto del perché, anche quando questo ti sembra un mestiere di merda, anche quando non c’è niente da fare, anche quando sei solo spettatore privilegiato dei fatti che la vita ti mette davanti, vale la pena di farlo.
Perché quando tornerai a casa stasera ti verrà voglia di abbracciare un po’ più forte quelli a cui vuoi bene e per loro sarà così, senza un motivo apparente.

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