Inizi della specialità, primo sabato di guardia in reparto, dicono che i novellini siano sempre i più sfortunati, ma io non sono superstiziosa.
“Hai già dato un’occhiata al 7? è venuto il medico di guardia tre volte questa notte”.
Il ruolo degli infermieri, nelle guardie festive, è essenziale. Ti trovi con trenta malati sconosciuti e scegliere chi visitare per primo non sempre è semplice.
Il paziente in questione è, ad essere ottimisti, in coma, con un braccio rigido come un tronco e l’altro plegico, senza tono muscolare. Prendo i parametri, misuro la glicemia, faccio l’elettrocardiogramma, quando sto per chiamare la radiologia arriva lo strutturato che mi toglie le castagne dal fuoco insistendo personalmente con i radiologi per una TAC urgente.
L’emergenza in medicina interna non assomiglia per niente ad ER, anche perché siamo due medici per trenta malati i quali sembrano essersi accordati per lamentarsi in contemporanea.
La signora del letto 15 deve essere dimessa e a quanto pare abbiamo perso parte della sua documentazione clinica, ma io non ho mai visto lei né la sua cartella e se anche quest’ultima fosse rimasta in qualche luogo dell’ospedale sarebbe di certo impossibile trovarla di sabato quando tutto, tranne i servizi essenziali, è chiuso. Ai parenti, però, viene una crisi di panico quando lo comunico, così, mentre dalla radiologia chiamano per avvisarci che il nostro 7 ha un’emorragia cerebrale e altri venti pazienti attendono di essere visitati bisogna anche attivare una catena telefonica per tentare di svelare il mistero della documentazione perduta.
I parenti della signora al letto 6, invece, ci tengono a sottolineare che secondo loro ha bisogno di una coronarografia e mi tocca spiegare la differenza tra questa e la scintigrafia miocardica che è stata richiesta dai colleghi e perché nel suo caso si tratti dell’approccio migliore.
Poi c’è il signore al letto 9 che mi convoca d’urgenza per informarmi che vuole firmare ed andarsene. Intanto il 7 torna con la sua diagnosi di ictus e bisogna chiamare il neurochirurgo, impostare la terapia dell’edema cerebrale e spiegare per telefono l’accaduto ai parenti che sono in arrivo e per poco non si schiantano in macchina alla notizia.
Fa poi il suo ingresso in reparto un nuovo paziente da ricoverare, perché il pronto soccorso è sommerso e non può fare a meno di mandarci un tranquillissimo caso di crisi epilettiche recidivanti.
Mentre compilo la cartella alla meglio, con mezzo reparto ancora da visitare, torno a parlare con il 9 spiegandogli che sì, se vuole può tornare a casa a neanche 24 ore dal ricovero, ma in fondo è stato lui a recarsi in pronto soccorso perché non respirava bene e la speranza che risolvessimo il suo problema tra le 18 del venerdì e le 14 del sabato era piuttosto irrealistica.
“Dottoressa?”
No, non credo di poter sopportare un altro parente insoddisfatto del cibo, delle attenzioni, dei vicini di stanza.
Mi volto di scatto con l’aria un po’ scazzata.
Quello che mi viene incontro con l’andatura un po’ incerta, un bastone in una mano e nell’altra un pacco di dolci è il marito della 6, la signora che non voleva fare la coronarografia.
“E’ stata così gentile a prendersi cura di mia moglie, sa, mia figlia e mio genero parlano tanto ma è perché ci vogliamo bene”.
Mi porge il pacco.
“Tenga, ma prima di mangiarli, mi raccomando, ci canti sciuri sciuri così si credono che è siciliana anche Lei e si fanno più buoni”.
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