Sono sei anni, da quando ho iniziato a tenere questo sito, che il sottotitolo sta lì dov’è e penso che i tempi siano finalmente maturi per spiegarne il perché.
“Non per un Dio ma nemmeno per gioco, perché i ciliegi tornassero in fiore
Il protagonista della canzone di De André e prima ancora della poesia di Lee Masters da cui il suddetto titolo è tratto, è un giovane dottore appena laureato che vuole “essere buono e saggio e coraggioso e utile al prossimo”, ma poi si rende conto che i suoi compaesani sono dei poveracci e che non sopravviverà mai con quel poco che guadagna, così inizia a vendere elisir di giovinezza e finisce i suoi giorni in carcere scontando la pena per truffa.
De André aggiunge alla storia lapidaria di Lee Masters un tocco di romanticismo: un bambino che vede ogni anno sfiorire i ciliegi per far posto ai frutti e in questo passaggio stagionale legge il male del mondo, quello a cui desidera porre fine aiutando “i ciliegi a tornare in fiore”. Non per un dio (De André non avrebbe mai detto come Masters “porterò il credo cristiano nella pratica della medicina”), ma nemmeno per gioco, perché il bambino è ormai cresciuto, è un dottore vero.
Il prosieguo della storia è il medesimo, con l’aggiunta di un solo, piccolo, insignificante e poetico dettaglio: quell’elisir di lunga vita altro non è se non l’estratto dei fiori di ciliegio, di quei sogni di bambino sbriciolatisi all’impatto con l’amara realtà.
Bella storia di merda a fare da frontespizio a un sito di medicina no?
Le aspettative del bambino di De André sono spropositate: lui vuole “guarire i ciliegi” che da un lato è impossibile (se sfiorire è ammalarsi allora sono destinati a farlo), dall’altro è inutile perché rifioriscono da soli ogni primavera. Non importa, quindi, se la sua motivazione è la più giusta del mondo, è destinato a fallire in ogni caso e la caduta da un’altezza simile non potrà che essere vertiginosa.
Di certo più in basso di così il dottore non poteva scendere, “bollato come imbroglione e truffatore dall’integerrimo Giudice Federale” dice Masters, il giudice sì che ha capito tutto, sembra sottintendere, lui e gli altri medici che “sanno cosa c’è nel tuo cuore” e ti condannano a morire di fame.
Quello che mi chiedo, però, è se la storia del medico di Spoon River potesse finire meglio. Era davvero l’unica soluzione passare da medico degli ultimi a truffatore di danarosi? La caduta è una conseguenza aritmetica dell’avere delle aspettative eccessive?
Molti di coloro che aspirano a fare questo mestiere lo fanno per una generica necessità di essere utili al prossimo o di sentirsi buoni per aver alleviato le sofferenze di qualcuno. Motivazioni che vengono però messe alla prova molto presto, prima ancora di avere la possibilità di “giurare ricevendo il diploma”. Ci sarà sempre la circostanza, il paziente, l’evento che ti insinua il dubbio di essere stato troppo ingenuo, di aver avuto aspettative troppo alte.
Non è più una questione di “morire di fame” perché all’onorario dei nobili salvatori del popolo ci pensa (per ora) lo Stato, è più una questione di “morire dentro”.
La bilancia della soddisfazione in medicina è composta da granelli di sabbia e da macigni. Un solo macigno è in grado di buttare al vento milioni di sassolini faticosamente raccolti.
Purtroppo nell’immaginario collettivo, e quindi anche in quello di chi si accinge a intraprendere questo percorso, il medico “salva delle vite”. Nella realtà no, non salva vite,non sempre almeno, ma le incontra.
Si interfaccia con persone di ogni tipo, in condizioni particolari usufruendo di un rapporto peculiare, quello in cui il paziente può/deve fidarsi/confidarsi di e con chi sembra avere per caso in mano la sua salute.
Ogni giorno ci sono momenti in cui, come medico, senti di dovere a tutti una risposta, ma quello che importa in realtà è la domanda. In queste circostanze si può imparare molto tacendo, non abbandonando, ma ascoltando.
Qualcuno una volta su questo mio frontespizio ebbe a dire che per quanto rileggesse la frase gli piaceva sempre meno:
Perchè mi hanno insegnato che i ciliegi non hanno bisogno di noi per tornare in fiore ogni primavera… e “fare”, “agire”, “pensare”, insomma “vivere” per qualcosa che non necessita del nostro “vivere” mi sembra tempo sprecato.
E’ vero, guarire i ciliegi è inutile, lo è perché è il sogno di un bambino, del tutto irreale.
Ma anche la medicina è inutile, vana, irreale: combatte una battaglia che sa di perdere, solo per allungare e forse migliorare una vita che è destinata a finire.
Affinché qualcosa cambi, bisogna credere che il cambiamento sia possibile e che possiamo esserne artefici, ma il macigno che spazza via tutte le illusioni potrebbe arrivare indipendentemente dalle nostre convinzioni. Ed è qui che si apre il bivio tra un medico, quello di De André, è il medico che vorremmo essere. Non più ingenuo, ma altrettanto desideroso di volare alto.
Per questo, anche se allora non lo sapevo, mi piaceva quella frase e per questo non l’ho mai cambiata: perché è un monito a non trasformare l’odore dei fiori di ciliegio di quando eravamo bambini nell’elisir della nostra rovina.