Ci sono dei momenti nella nostra università in cui un campus all’americana lo desideri con tutto te stesso…Quando devi volantinare, ad esempio, e ti rendi conto che ti servono tonnellate di carta perché le facoltà del nostro ateneo sono sparse ai quattro angoli della città: centro, periferia, quartieri residenziali e industriali della prima cintura inclusi. O quando vorresti convocare un’assemblea e a Medicina 1 non sai dove farla perché ogni dipartimento ha la sua aula (chiusa) che dà sulla strada, i cortili sono pieni di macchine (e sono all’aperto), in ospedale è come riunirsi al supermercato… Restano le gradinate di biotecnologie, l’edificio più simile a un campus reperibile nei paraggi, ma è dei biotecnologi e ci si sente fuori posto. Oppure quando vorresti fare un annuncio importante e devi vagare per il quartiere, cercando di ricordare quale anno sta in quale aula e in quale periodo, sempre che non si sia in finestra esami, in tal caso bisogna battere la dozzina di aule studio e biblioteche disponibili. Ma poi ci sono dei momenti per i quali vale quasi la pena di scarpinare per chilometri ogni volta che hai bisogno di una fotocopia o di un certificato della segreteria. Ieri è stato uno di quei momenti. Ho già detto cosa penso delle romantiche quanto scomode aule ottocentesche della nostra facoltà… ebbene mi trovavo a studiare in una moderna biblioteca adiacente ad una delle suddette (magia dei contrasti all’italiana) e girovagavo senza meta durante una pausa. Chi di voi ha un metodo di studio peripatetico se cosa significa cercare un luogo abbastanza spazioso e tranquillo dove poter liberamente camminare ripetendo quanto appreso. Ero appunto alla ricerca di un luogo simile quando mi sono trovata davanti a delle scale. Scale che ho visto migliaia di volte e usato spesso negli anni passati come scorciatoia tra il piano terra e l’interrato finché non decisero di chiudere una delle porte. Mai, però, avevo pensato di salirle. Ieri, invece, complici la poca voglia di tornare al buio a studiare e il desiderio di sentirsi un po’ Indiana Jones mi sono ritrovata in cima alla rampa quasi senza accorgermene e ho scoperto un luogo affascinante quant’altri mai. Sul muro di fronte slogan in vernice rossa:
lotta continua per il comunismo un nuovo modello di sviluppo, lotta continua dappertutto per un’alterativa rivoluzionaria democrazia proletaria
Resti di un’occupazione di trent’anni fa.
In una stanza con le travi dipinte dello stesso rosso campeggiano manifesti di democrazia proletaria sull’Italicus, l’aborto, il ’68, la DC. Una scala a pioli abbandonata, una cucina con lavandino, fornello e cappe, il tutto ricoperto da una spessa patina di polvere, intoccato da decenni.
Poco oltre le spesse travature di legno che sorreggono un controsoffitto di assi mi fa capire di essere al di sopra dell’aula magna ottocentesca summenzionata.
Ancora oltre un corridoio da film dell’orrore, un’infilata buia di porte, lacerata a tratti da lame di sole che penetrano dai lucernai. Al fondo un portone borchiato sbarrato. E’ in momenti come questi che il campus della Columbia University, il villaggetto con dormitori e viali di ghiaia che si perdono tra le aiuole e i prati e conducono ai vari dipartimenti, alle aule e ai negozi non suscita in me alcuna invidia. Tanto basta alla mia indole storico-avventurosa per essere soddisfatta. Se ne riparla al prossimo volantinaggio, naturalmente!
Per la cronaca: durante la minuziosa esplorazione hanno chiuso il portone da cui ero entrata e ho rischiato di rimanere bloccata trasformando la perfetta ambientazione cinematografica in un thriller vero e proprio. Invece, per puro caso, era aperta un’altra porta che solitamente è sprangata. Almeno questa volta fortuna audaces iuvat è il caso di dirlo…