Da qualche settimana abbiamo detto addio al Polo Biologico e ci siamo trasferiti alla periferia dell’ospedale. Al di là della mia personale preferenza per le aule ottocentesche di via Giuria a quelle carcerarie, interrate e claustrofobiche di via Santena, è uno spostamento ricco di significato. Siamo al giro di boa della carriera universitaria, le conoscenze scientifiche di base si danno per acquisite ed iniziano le famigerate “cliniche”.
È un semestre di sospensione, così come sospesa è la sistemazione: non lontana dall’ospedale (come era negli anni passati) ma non ancora Dentro (come sarà nei futuri).
E’ un passaggio che si attende per anni, già dal secondo semestre del primo anno, quando l’entusiasmo iniziale dovuto alla novità della vita universitaria in parte si è smorzato e ci si inizia a chiedere “A cosa mi serve studiare Questo?” e soprattutto: “Me lo ricorderò quando sarò dottore?”. Da allora si inizia ad aspettare questo momento, queste maledette cliniche, quando finalmente si studierà qualcosa che serve, che fa diventare medici seri e utili. Poi ci si accorge che le lezioni sono quello che sono, non si possono fare miracoli, per imparare non bastano i libri e allora subentra un attanagliante senso di inadeguatezza.
Per la prima volta viene meno il pensiero consolatorio “Anche se dimentico la formula di struttura della vitamina B12 nessuno morirà per questo”, sostituito dalla consapevolezza che quello che il professore sta cercando di spiegare in questo momento, mentre tu proprio non riesci ad ascoltare e sei sempre più attirato dal racconto delle prodezze del tuo vicino, quello sì che servirà, fa parte sicuramente delle cose che un medico dovrebbe sapere. Per di più ce ne sono molte altre di cose che si dovrebbero sapere e che però non saprai perché saranno trascurate dal professore, perché le dimenticherai, perché non le studierai e nessuno se ne accorgerà, perché le lezioni sono noiose o perché l’esame è facile.
Però uscito da qui sarai il Dottore… Il Dottore ha studiato sei anni… il Dottore sa!… Se lo dice il Dottore… C’è un Dottore in sala?… Il Dottore ha sempre ragione…Chiamate un Dottore!… Dottore mi fido di Lei….
Ebbene, il Dottore è in grado di avere per le mani la vita di un essere umano?
È un concetto con cui si impara a convivere, viene usato come sprone da quasi tutti i professori dei primi anni, ma nessuno studente ci crede nell’immediato. Nessuno pensa, a ragione, che dimenticare la struttura tridimensionale di un canale piuttosto che il grafico della resistenza arteriolare o il nome dei vasi del circolo di Willis possa compromettere una terapia (per quanto un sofista di media abilità saprebbe dimostrare il contrario). Ma poniamo che si tratti di dosare un farmaco o diagnosticare un tumore o una TVP… Poniamo che tu non ne sia in grado perché non ne hai mai visto uno, poniamo che abbia preso trenta di quell’esame ma non te l’abbiano chiesto, poniamo che non te l’abbiano insegnato.
La risposta a questa profonda angoscia esistenziale è arrivata per caso, una sera, quando leggendo le memorie di un giovane dottore mi sono imbattuta in questa frase dolceamara e non ho potuto che sorridere:
Medical School, which is frankly a farce, was at best a subliminal education where at same stage, from these vast oceans of factual sludge, you manage to extract a representative and intuitive background idea of how things should be in the body. Then you supplement this with the practical stuff about what you really need to be a doctor, usually at 3 a.m. when you’re the only person around with even half a clue and all the punters kick off at once and the registrar is in bed. The system works. It works fine. Just don’t worry about it
Michael Foxton: “Bedside Stories, confessions of a junior doctor”, The Guardian Atlantic Books, 2003
Ci proverò.